Silvia Dumitrache è presidente di Adri, Associazione Donne Romene in Italia che si occupa di valorizzare e supportare la condizione delle immigrate romene, in massima parte colf e delle badanti che lavorano in Italia e rappresentano il 57,5 per cento della comunità più numerosa in Italia, con circa 1 milione e 200 mila residenti ufficiali. E’ arrivata in Italia nel 2003 per curare il figlio, Filip, affetto da una malattia rara, la talassemia major che , senza farmaci salvavita e emotrasfusioni, comporta il ritardo della crescita e altri problemi molto gravi. “Devo ringraziare l’Italia se sono riuscita a curarlo in tempo – dice – oggi Silvia – mio figlio deve ancora sottoporsi a trasfusioni ogni tre settimane e deve prendere i farmaci salvavita, ma sta bene e ho dovuto allungare l’orlo dei pantaloni – dice con una battuta, alludendo al fatto che il ragazzo è cresciuto regolarmente in altezza”. Dopo 6 mesi di cure Silvia torna in Romania con Filip, ma avendo assistito al miglioramento della salute del figlio, si batte perché anche i ragazzi romeni, affetti dalla stessa malattia, possano accedere ai farmaci salvavita attraverso la sanità pubblica. “Sono riuscita a ottenere questo importante risultato anche attraverso una campagna stampa svolta attraverso il giornale nel quale ho lavorato per 21 anni “Filatelia”.
Il trasferimento in Italia
“All’inizio facevo avanti e indietro per i controlli cui doveva sottoporsi ciclicamente Filip, ma trattandosi di una cura permanente, ho deciso di trasferirmi in Italia per semplificare le cose visto che sono anche da sola a occuparmi di mio figlio e che devo lavorare. A Milano ho frequentato un corso di formazione della Regione Lombardia come operatore multimediale , dove ho studiato anche psicologia del marketing, comunicazione e informatica. Per me è stata un’occasione, quella, molto importante. Con quel diploma ho fatto diversi lavori in un call center, nella segreteria di un medico di famiglia che si occupava di persone disagiate economicamente, poi mi sono specializzata come mediatrice culturale. Nel 2011 ho fondato l’associazione delle donne romene in Italia per supportare e valorizzare la condizione delle donne romene immigrate. Se potessi scegliere, preferirei vivere a Roma che è una città molto più accogliente e “calda” di Milano, anche in Sardegna, a Cagliari dove ho vissuto per un periodo mi sono trovata benissimo, ma a Milano ho avuto l’offerta da parte di una volontaria di abitare in casa sua e così da tanti anni sono milanese”.Accade spesso, purtroppo, che le lavoratrici accettino di lavorare in nero per compensi più elevati, sottovalutando i rischi e le conseguenze: la mancanza della copertura sanitaria, del versamento dei contributi previdenziali, di tutele e diritti. Lavorare in nero, con ritmi di lavoro molto sostenuti, senza permessi, né sabati, né domeniche, prive di sonno e di vita privata, lontane dalla famiglia, sono condizioni oggettive di fragilità e vulnerabilità”. Silvia ha denunciato già da tempo anche sui media il fenomeno della Sindrome Italia, una forma depressiva acuta che colpisce molte delle badanti al loro rientro in Romania, dopo anni di lavoro lontane da casa e dai loro figli, orfani bianchi che non reggono l’abbandono. “Purtroppo però – riconosce – per molta parte della comunità che risiede in Italia io sono un personaggio scomodo. Sono le stesse donne a essere divise tra di loro e a non voler mettere in evidenza queste rivendicazioni. Ma c’è un detto in Romania: “dio ti da dei regali, ma non te le mette dentro le tasche, te li devi conquistare. Io credo che non si possa restare fermi ad aspettare che qualcuno decida quello che devi avere, come succedeva da noi con il regime comunista. Spetta a ognuno di noi farsi riconoscere i propri diritti”.
Da senzatetto a segretario della diaspora romena
Una carriera nel settore alberghiero
Da portiere di notte, poi receptionist fino al ruolo di manager, Ovidiu ha scalato tutti i gradini della carriera all’interno del settore alberghiero. Con la moglie Andreea che lavora insieme a lui. “Acquistiamo appartamenti nel centro storico – spiega – li ristrutturiamo e li trasformiamo in affittacamere che poi rivendiamo, pronti per aprire al pubblico”. In proprio Burdusa gestisce un boutique hotel di sei camere in via del Corso, in un palazzo del 1821 dei principi Colonna, vicino alla chiesa di San Carlo. “Dal 12 marzo l’albergo è chiuso a causa della pandemia da coronavirus e spero di riaprirlo a giugno usufruendo delle, solo annunciate per ora, sovvenzioni governative per il settore del turismo. Per fortuna il proprietario delle mura ci ha accordato una sensibile riduzione dell’affitto, ci aspettano tempi difficili”.
La comunità parrocchiale sulla Tuscolana
Con i suoi due figli “romani” per nascita, Ovidiu in casa parla romeno: tiene molto all’dentità nazionale, promuovendola per mestiere, ma anche in famiglia: ci tiene che i figli non si allontanino troppo dalle radici del loro paese d’origine. A Roma abita nel quartiere di San Giovanni e frequenta la chiesa ortodossa romena dell’Elevazione della Santa Croce, in zona Tuscolana. “Nello stesso edificio al primo piano c’è la chiesa cattolica e sotto quella nostra ortodossa molto frequentata dalla comunità per tutte le festività religiose, anche perché si trova vicino alla fermata della metropolitana. L’anno scorso per la Pasqua ortodossa c’erano più di mille persone.”
L’identità nazionale da promuovere
In questo momento Ovidiu si trova in Romania con tutta la famiglia, tornata nel paese in occasione della sua nomina. É entusiasta del suo nuovo incarico che segue la sua esperienza come consigliere eletto nella sua regione la Vrancea. “ Solo nel Lazio la presenza di romeni residenti è di circa 300 mila persone e il mio dipartimento si occupa di finanziare i progetti delle associazioni della comunità romene all’estero – che riguardano l’educazione, i mass media, la cultura, l’integrazione culturale e di promuovere nei paesi di arrivo la nostra identità nazionale. Di progetti da esaminare ora ne abbiamo 26 dall’Italia e li valuteremo uno a uno”. Ma il sogno ancora da realizzare di Ovidiu è un altro. “Vorrei avere il privilegio di diventare sindaco della mia città, Panciu, per mettere al servizio del mio paese tutto quello che ho imparato in ventidue anni di vita in Italia”.
La seconda generazione, Ionut e il supermercato
L’insegnante di sostegno e gli ottimi voti nei temi
A Roma Ionut frequenta la scuola elementare del suo quartiere. All’inizio ha un po’ di difficoltà per mettersi alla pari con i suoi compagni. “Non parlavo una parola di italiano – ricorda – e venivo da una realtà completamente diversa. Loro giocavano con il game boy e io non ne avevo mai visto uno. Loro andavano a scuola calcio e io non avevo mai fatto sport in vita mia, dopo la scuola tornavo a casa”. I ragazzini, si sa possono essere anche crudeli, così vedendolo tanto distante da quelle che consideravano abitudini acquisite, chiedevano a Ionut se in Romania avessero la luce e l’acqua corrente“Ma per fortuna a scuola quasi subito, da settembre a dicembre, mi hanno assegnato un’insegnante di lingua di sostegno – riprende a raccontare – e a fine anno avevo imparato a parlare bene l’italiano. Non per vantarmi, ma da quel momento in poi sono diventato il migliore della classe. Ai temi prendevo tutti 9 e 10. Alle superiori Ionut frequenta l’Istituto Tecnico Industriale dove studia Elettronica e Telecomunicazioni. La scuola lo inserisce nell’elenco dei migliori diplomati di quell’anno con un voto di 85 su 100 e una ditta che fa manutenzione degli impianti elettrici lo chiama per un tirocinio.
Il lavoro e l’incontro con Sara
“Siamo stati selezionati in trenta – racconta – e poi siamo rimasti in tre. Dopo il primo tirocinio sono stato preso in un’altra ditta con un contratto di apprendistato e poi nel 2018 sono riuscito a ottenere il tempo indeterminato. Adesso con la mia ditta lavoro per la manutenzione degli impianti elettrici all’Ospedale Bambino Gesù”. Nel frattempo Ionut ha incontrato Sara, sua moglie, che è italiana ed è più grande di lui di un anno. “Lei abitava nella casa di fronte alla mia. Ci siamo conosciuti per caso alla scuola guida dove siamo capitati nello stesso corso: lei era in ritardo di un anno, io non vedevo l’ora di prendere la patente perché le macchine sono la mia passione e dunque avevo iniziato le lezioni prima di compiere 18 anni. Da quel momento Sara ha cominciato a “stalkerarmi” : veniva tutte le mattine alla fermata dell’autobus che mi portava a scuola, alle 7, per incontrarmi anche se lei era già iscritta alla Sapienza a Sociologia e aveva lezione molto più tardi. Alla fine però ci è riuscita: ci siamo sposati. Abbiamo organizzato il ricevimento di matrimonio in una villa a Castel Gandolfo per rendere felici entrambe le famiglie, la sua con una bella festa, la mia con un grande spazio per ballare, usanza dalla quale non si può prescindere in un matrimonio romeno”.
La famiglia
Oggi Ionut vive a Roma con sua moglie che è laureata in Sociologia e lavora alla Conad, nella casa che si sono comprati stipulando un mutuo da 600 euro al mese. “Siamo stati fortunati, avevamo entrambi solo un contratto di apprendistato, ma la banca stava facendo una promozione proprio per i giovani. Grazie al nostro lavoro, Sara lavora su turni di 40 ore in questo periodo sempre con la mascherina in faccia, abbiamo raggiunto il nostro principale obbiettivo che era quello di costruirci la vita da soli, avere una casa nostra senza pesare sui genitori. Con mia madre e mio padre parlo in romeno” Ionut ci tiene a conservare la sua identità culturale, “anche con mia moglie – dice – qualche volta, soprattutto quando mi arrabbio. Lei mi capisce perché passa ogni estate un mese in vacanza in Romania. Invece mia sorella Ioana che è nata a Roma nel 2006, in Romania ci resiste al massimo per tre giorni in vacanza, poi vuole tornare in Italia”. Con la nonna che l’ha “svezzato” Ionut parla al telefono tutte le settimane e fino al 2018 è tornato a trovarla tutti gli anni in occasione delle ferie. “Ora con questa situazione che si è venuta a creare per il virus non so quando la potrò rivedere” .
Lucia la professoressa che insegna il romeno agli italiani
Un matrimonio alle spalle
“Non avevo intenzione di fermarmi in Italia – racconta – ma dopo un po’ di tempo ho incontrato il mio attuale marito che è un italiano e sono rimasta”. Lucia avrebbe potuto anche risposarsi in chiesa- secondo il rito ortodosso – ma non ha voluto. “Avevo già giurato la prima volta di fronte a un prete, a 21 anni, e non me la sono sentita di farlo la seconda. Con il mio attuale marito ci siamo sposati in comune con un cerimonia molto intima, diversa da quella romena che dura tutto il giorno e prevede, dopo il rito religioso, la cena e il ballo a oltranza per tutta la notte fino all’alba, quando gli sposi vengono accompagnati “in corteo” nella loro nuova dimora”.Resta il pensiero e la preoccupazione per i genitori lontani, rimasti da soli nel villaggio. “Sono ancora giovani, mio padre non ha ancora compiuto 70 anni e mia madre ne ha 60. Vado a trovarli due o tre volte all’anno, l’ultima volta li ho visti a novembre, ma certo non siamo una famiglia che sta seguendo le tradizioni: in Romania il più piccolo dei figli, di solito il maschio, resta per prendersi cura dei genitori, funziona da sempre così, soprattutto nei villaggi. Ma noi siamo femmine e mia sorella vive a 400 chilometri di distanza dai genitori ad Arad nell’Ovest della Romania dove lavora”.
Punto di riferimento per i genitori romeni
In Italia, a Roma, Lucia che oggi ha 43 anni, ha la sua vita. Dopo aver preso la laurea breve in Scienze dell’Educazione alla facoltà di Roma Tre, ha vinto un concorso bandito in Romania per l’insegnamento della lingua romena nelle scuole italiane e da allora lavora in una scuola elementare di via Casalotti e in istituto superiore di Aprilia, vive ad Ardea. “Gli studenti sono romeni, ma anche italiani. Uno dei più bravi è stato proprio un italiano. Ha imparato a parlare un romeno fluido e senza alcuna inflessione, mentre molti dei ragazzi romeni che sono nati qui in Italia faticano a nascondere l’accento romano”. Attraverso il suo lavoro Lucia si è riavvicinata alla comunità romena.
La chiesa ortodossa che dialoga con la chiesa cattolica
La dimensione del sociale acquisita grazie ai cattolici
Le parrocchie nel territorio italiano sono quasi 400 e radunano più di un milione di fedeli, molte delle quali, grazie alla disponibilità da parte della Chiesa Cattolica, hanno potuto organizzarsi negli spazi all’interno degli stessi edifici per offrire il servizio spirituale, il catechismo e per funzionare come centri culturali e d’ascolto. “Questo vicinanza è stata di grande aiuto per noi perché abbiamo acquistato una dimensione sociale che ci era mancata negli anni del regime comunista. Il servizio è diventato il nostro primo approccio alle persone che arrivano in chiesa e trovano un punto di riferimento non solo religioso, ma anche per ciò che riguarda il lavoro e le difficoltà della vita quotidiana” E per chiarire ancora meglio la missione sociale della chiesa padre Gheorghe ricorre a una metafora: “la chiesa è come le montagne dove le cime sono facilmente visibili, ma difficili da raggiungere, la vegetazione, i fiori e tutto quello che sta in basso è la vita della società. Ed è attraverso il servizio al prossimo che la Chiesa serve Cristo”.
Le badanti sostegno anche per i mariti
Il vicario pensa in particolare alle badanti che assistono gli anziani. “Voglio esprimere tutta la mia gratitudine a queste donne che stanno continuando a prestare la loro assistenza, “segregate” nelle case dove vivono, e che in qualche caso mantengono i mariti che non hanno più il loro lavoro. In questo periodo di grande prova e sofferenza la Diocesi, sotto la cura pastorale del Vescovo Siluan e del Vescovo Ausiliare Atanasie di Bogdania, sta facendo di tutto per essere vicina a queste persone, anche attraverso l’uso dei social per dare conforto e sostegno. Allo stesso tempo è stata organizzata anche la distribuzione dei pacchi alimentari con l’aiuto dei volontari di tutte le parrocchie per dare alle famiglie un aiuto concreto”.
Francesca Cusumano(29 aprile 2020)
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