Centri antiviolenza e donne migranti: “Leaving violence”

Centri antiviolenza e donne migranti

Leaving violence. Living Safe è un progetto della Rete nazionale dei Centri Antiviolenza D.i.Re, in partnership con UNHCR, che mira a supportare percorsi di fuoriuscita dalla violenza di genere di donne migranti richiedenti asilo e rifugiate. Dal 2017 al 2020 ha visto la partecipazione di 71 centri in 17 regioni italiane, riuscendo ad accogliere nei centri antiviolenza più di 300 donne migranti, la maggior parte di loro con un età compresa fra i 18 e i 29 anni. Intervista a Maria Elena Cirelli e Rebecca Germano, coordinatrici del progetto, e a Laura Pasquero, esperta del monitoraggio e della valutazione di Leaving violence. Living Safe.

L’importanza dei centri antiviolenza

“La rete D.i.Re in questi anni è riuscita a farsi motore di un processo di ripensamento del sistema asilo e accoglienza in un’ottica di genere, considerando che moltissime donne che raggiungono l’Italia hanno subito, o sono a rischio di subire, violenza di genere, e hanno diritto a trovare un supporto qualificato e pienamente accessibile. Molte donne scappano dai Paesi di origine poiché caratterizzati da instabilità e conflitti, da norme sociali sfavorevoli nei loro confronti e da povertà. Fuggono dal rischio di subire mutilazioni genitali, matrimoni precoci e forzati, sterilizzazioni o aborti, stupri di guerra, violenza intra-familiare, sfruttamento sessuale e lavorativo. Vi è un rischio altissimo di subire violenza di genere anche durante il viaggio migratorio: come emerge da una ricerca del Progetto SWIM – Safe Women in Migration, quasi la totalità delle donne migranti provenienti dall’Africa hanno subito nel loro viaggio una qualche forma di violenza. Altro dato allarmante è che il 72% delle persone vittime di tratta di esseri umani è di genere femminile, per lo più costrette ad attività nel mercato sessuale nei Paesi di arrivo. Con il supporto dei centri antiviolenza, le donne possono in primo luogo trovare uno spazio dove parlare di sé e della violenza nei modi e nei tempi che loro stesse decidono. Possono essere ascoltate senza timore di ripercussioni dovute alla precarietà di un eventuale status giuridico non tutelante. Le loro priorità saranno messe al centro nella costruzione di un percorso individuale di fuoriuscita dalla violenza e verso l’autonomia”.

Violenza e sfruttamento in Italia

Le donne che si rivolgono a D.i.Re lo fanno soprattutto per uscire da situazioni di violenza nelle relazioni o violenza domestica, esercitata dal partner nel 55,5 per cento dei casi, dall’ex partner nel 19,9 per cento o da un altro familiare nell’8,7 per cento dei casi, come conferma l’ultima rilevazione statistica di D.i.Re relativa al 2019. Molte donne migranti, richiedenti asilo e rifugiate si trovano infatti a vivere situazioni di violenza anche una volta arrivate nel nostro Paese. La violenza è perpetrata dai compagni, da membri della loro comunità, da sfruttatori e sfruttatrici che possono approfittare di una loro condizione di vulnerabilità. Anche le stesse famiglie, sia che si trovino in Italia o nel Paese di origine, possono esercitare delle pressioni di tipo economico e di tipo sociale. La precarietà ed emarginazione possono condurre le vittime all’interno del circuito della tratta, molto spesso a scopo di sfruttamento sessuale ma anche di grave sfruttamento lavorativo”.

Le case rifugio

Le case rifugio sono la soluzione di emergenza necessaria a proteggere le donne, e i loro figli e figlie, in quelle situazioni in cui la permanenza presso la propria abitazione le espone a gravi rischi. Nelle case rifugio lavorano le operatrici dei centri antiviolenza che avviano con le donne accolte il percorso di supporto orientato alla fuoriuscita dalla violenza, con il supporto delle avvocate, se devono essere avviate procedure legali, o delle psicologhe, qualora occorra un percorso specifico per il superamento del trauma. Ma, soprattutto, il percorso è orientato all’autonomia delle donne, grazie anche al reinserimento lavorativo, affinché possano riprendere in mano pienamente la propria vita. Questo è valido per tutte le donne, ma per le donne migranti, e in particolare le richiedenti asilo, al primo posto c’è senz’altro la regolarizzazione del loro status, l’ottenimento di una forma di protezione o, nel caso di donne con permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare che si separano dai mariti violenti, l’ottenimento di un permesso di soggiorno proprio”.

L’arrivo dell’emergenza Covid-19

“La pandemia COVID-19 ha avuto un impatto specifico sulle donne migranti richiedenti asilo e rifugiate, acutizzandone i bisogni e aggravandone le vulnerabilità sociale ed economica. Durante il lockdown, il confinamento ha reso arduo l’accesso ai centri antiviolenza. Le donne si sono scontrate con un acuito isolamento, un maggiore controllo da parte di partner, familiari ed altri eventuali maltrattanti e una minore autonomia di movimento per accedere ai centri antiviolenza, denunciare la violenza o cercare altri tipi di supporto. L’emergenza sanitaria sembra inoltre aver aggravato alcune delle vulnerabilità del sistema di accoglienza e supporto. Ad esempio, come conseguenza delle restrizioni imposte dal lockdown, la maggior parte dei colloqui con donne richiedenti asilo segnalate ai centri antiviolenza da parte delle Commissioni Territoriali è stato sospeso. Questo a causa di difficoltà legate alla sostituzione dei colloqui in presenza con colloqui telematici o per volontà delle donne di non svolgere colloqui online”.

Stereotipi e vittimizzazione secondaria

L’opinione pubblica spesso vede la donna straniera come vittima di una cultura retrograda e di norme religiose fanatiche. Ma la violenza contro le donne non è un’esclusiva di alcune culture: è un fenomeno strutturale di tutte le società, anche di quella italiana. D.i.Re è anche in prima linea contro la vittimizzazione secondaria, ovvero contro quegli atteggiamenti e prassi, di magistratura, forze dell’ordine e media, che delegittimano il racconto della violenza da parte delle donne, rubricando le violenze subite come conflitto familiare, o considerando la violenza come episodica e frutto di raptus momentanei, o giudicando il comportamento delle donne quasi che fossero responsabili della violenza che subiscono. Questi stereotipi colpiscono anche le donne migranti richiedenti asilo e rifugiate, ad esempio le donne e ragazze di origine nigeriana, che sono viste esclusivamente come vittime di tratta e sfruttamento sessuale”.

Mediatrici culturali e centri antiviolenza

“Per poter garantire alle donne migranti richiedenti asilo e rifugiate protezione e supporto, occorre innanzitutto investire sulla formazione e l’inserimento di mediatrici culturali nelle équipe dei centri antiviolenza. Fra le nostre proposte vi è quella di adottare un approccio che preveda collaborazioni operative, scambi di esperienze, formazione reciproca e mutualistica tra operatrici dei centri antiviolenza e di altre strutture. Anche la collaborazione con le Commissioni territoriali e altre istituzioni, come Questure e Prefetture, deve essere rafforzata. Il progetto Leaving violence. Living safe continuerà e metteremo anche a disposizione l’elenco delle mediatrici culturali formate sulla violenza di genere, affinché sempre più strutture possano ingaggiarle”.

Vincenzo Lombardo
(8 gennaio 2021)

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