Lavoratori agricoli stranieri: quanti sono e dove vivono

Lavoratori agricoli stranieri: per la prima volta il rapporto Le condizioni abitative dei migranti che lavorano nel settore agroalimentare, realizzato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e ANCI, fa luce su un settore lavorativo da anni salito agli onori della cronaca, perché particolarmente soggetto al fenomeno del caporalato. Il rapporto, presentato il 19 luglio, è frutto di un’indagine condotta, su base volontaria, dai Comuni italiani ed è inserito all’interno del Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato 2020–2022.

lavoratori agricoli stranieri
Secondo gli studi di Alessandro Leogrande, i trattamenti riservati ai migranti “non si sarebbero mai potuti imporre al bracciante locale. Perché, anche nei paesi pugliesi dove il caporalato classico persiste, caporali e braccianti finiscono per essere parte della stessa comunità”. Foto Google

Lavoratori agricoli stranieri: un fenomeno nazionale

Quello del lavoro agricolo straniero è un fenomeno che interessa l’intero territorio nazionale: dei 3.851 Comuni che hanno scelto di partecipare all’indagine, quasi la metà della totalità dei Comuni italiani, 608 registrano una presenza di lavoratori stranieri nel settore agroalimentare.

Nel 78,8% dei casi i lavoratori stranieri vivono in abitazioni private, in poco meno del 22% dei Comuni sono invece presenti strutture alloggiative temporanee o stabili attivate da soggetti pubblici o privati e/o insediamenti informali.

Insediamenti informali: senza diritti né servizi

Particolarmente problematici per il rispetto dei diritti fondamentali e la garanzia di servizi base sono gli insediamenti informali o “ghetti”, cioè insediamenti sorti spontaneamente e comprendenti sistemazioni di fortuna che vanno dagli edifici occupati alle vere e proprie baracche. 38 dei Comuni che hanno partecipato alla rilevazione hanno dichiarato di ospitare sul proprio territorio ben 92 insediamenti informali, localizzati principalmente in:

  • Puglia, 31,6%;
  • Sicilia, 21,1%;
  • Calabria, 13,2%.

Il 34% degli insediamenti informali è totalmente privo di servizi essenziali, quali acqua potabile, fognature, energia elettrica, strade asfaltate e collegamento con i mezzi pubblici, servizio di raccolta dei rifiuti. Nel 76,6% dei casi rilevati dai Comuni i servizi socio-sanitari – assistenza sanitaria, mediazione culturale, assistenza sociale, corsi di alfabetizzazione – sono completamente assenti.

Gli insediamenti informali sono localizzati principalmente nell’arco di 10 km dal luogo di lavoro (58,7%), ma nel 10% dei casi si trovano a un raggio di oltre 50 km. Questo comporta notevoli difficoltà per una categoria di lavoratori in cui il tempo di trasferimento dall’abitazione al luogo di lavoro ricopre un ruolo decisivo: pagati ad ore, meno tempo impiegano per raggiungere il campo più tempo potranno dedicare alla raccolta. Da qui il ricorso a mezzi di fortuna e il numero elevato di incidenti (come non pensare agli innumerevoli investimenti di braccianti sikh in bicicletta sulle strade dell’Agro Pontino?) che si verificano ogni anno.

Un dato che colpisce particolarmente è quello della cristallizzazione del fenomeno dei “ghetti”, che nella maggior parte dei casi hanno più di un anno di esistenza, fino ad arrivare a oltre 20 anni.

Le poche informazioni che si riescono a ricavare da una popolazione per forza di cose sfuggente quale quella dei migranti che abitano i ghetti disegnano un quadro di marginalità e sfruttamento. Si tratta per l’83% casi di uomini, nella maggior parte dei casi in condizione di irregolarità con il permesso di soggiorno (62%), che provengono principalmente da:

  • 🇲🇦 Marocco, 31,9%;
  • 🇧🇩 Bangladesh, 21,3%;
  • 🇹🇳 Tunisia, 21,3%;
  • 🇮🇳 India, 20,2%;
  • 🇳🇬 Nigeria, 20,2%.

Insediamenti formali: più garanzie e diritti

Sono 111 i Comuni dove si registra la presenza di lavoratori migranti nel settore agro-alimentare che vivono in strutture alloggiative (temporanee o stabili) attivate da soggetti pubblici o privati, il 48,6% dei quali localizzati nel Sud e nelle Isole. Il fenomeno interessa 19 regioni italiane, ad eccezione soltanto della Valle d’Aosta.
Si tratta principalmente di strutture residenziali stabili, nella maggior parte dei casi presenti sul territorio da più di 4 anni (73,7%), quindi fornite dei servizi essenziali (acqua potabile, energia elettrica, fognature, raccolta rifiuti sono garantiti ben oltre il 90% dei casi) e ben coperte dai mezzi pubblici (77,1%).

All’interno degli insediamenti formali sono maggiormente garantiti i servizi socio-sanitari, come la mediazione linguistica culturale (79,5%), l’integrazione socio-lavorativa (65,9%), corsi di alfabetizzazione (64,9%), formazione professionale (54,6%). L’incidenza di lavoratori vittime di caporalato (10,4%) è inferiore rispetto a quella relativa alla popolazione degli insediamenti informali. In quest’ultimo caso, essendo praticamente impossibile accedere a servizi di assistenza legale o di tutela, si devono ipotizzare molti più casi di quanti effettivamente emersi.

I numeri degli sfruttati

Analizzare il fenomeno del lavoro migrante nel settore agroalimentare è un passo fondamentale per affrontare situazioni di sfruttamento e criticità, per loro natura difficili da far emergere. Di caporalato e sfruttamento lavorativo in agricoltura si parla ormai da anni e da qualche anno si è anche tentato di fare qualcosa (i lavoratori agricoli sono stati tra i protagonisti, per esempio, della discussa campagna di regolarizzazioni avviata nel 2020).

Tuttavia quello dello sfruttamento dei lavoratori stranieri in agricoltura rimane un fenomeno dai confini ancora incerti, perché difficile da quantificare: se il V Rapporto Agromafie e caporalato quantifica in circa 180 mila i lavoratori particolarmente vulnerabili e quindi potenzialmente soggetti a fenomeni di sfruttamento e caporalato, l’Osservatorio Placido Rizzotto stima inoltre che circa quattro milioni di lavoratori agricoli operino senza documenti, in condizioni di lavoro precario e di sfruttamento.
Anche i dati emersi da questo rapporto risultano con ogni probabilità sottostimati, per stessa ammissione dei Comuni in molti casi impossibilitati a dare una misura del fenomeno sul proprio territorio. Tentare di quantificare il fenomeno, tuttavia, è la precondizione per cui si possano orientare e attuare nel modo più confacente alla realtà politiche e strategie.

Silvia Proietti
(1° agosto 2022)

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