Apolidi: la recente fondazione dell’Unione Italiana Apolidi (UNIA), associazione composta da apolidi, ex-apolidi o apolidi non ancora riconosciuti con il supporto di UNHCR e Intersos, impone di fare il punto su quella che rimane ad oggi una questione giuridica complessa e spesso ignorata. In Italia sono tra 3.000 e 15.000 gli apolidi non riconosciuti, cioè privi di status giuridico di apolide, e circa 10 milioni gli apolidi nel mondo (dati UNCHR). Ma cosa si intende precisamente con il termine apolidia?
Apolidi: il diritto alla cittadinanza secondo la DUDU
L’art. 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (DUDU) recita:
Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza.
Il possesso della cittadinanza di uno Stato non ha un valore puramente burocratico, ma è strettamente legato al godimento di molti diritti fondamentali, di cui funge da presupposto. La cittadinanza vincola l’individuo a una serie di doveri verso lo Stato di appartenenza, ma da questo riceve in cambio il godimento di fondamentali diritti civili e politici (come il diritto di voto) ed economico-sociali (come il diritto all’istruzione o il diritto al lavoro). Quella dell’apolide pertanto è una condizione di invisibilità giuridica e sociale, nonché di sostanziale inappartenenza sia nei confronti dello Stato di origine che di quello ospitante.
Chi sono gli apolidi nel diritto internazionale
L’apolidia è frutto di situazioni complesse – ridefinizione di confini degli Stati o loro dissoluzione (basti pensare alla ex-Jugoslavia), discriminazioni su base etnica, mancata registrazione alla nascita, rifiuto della cittadinanza – legate alla storia e alle vicende politiche dei Paesi di origine. Non a caso la Convenzione sullo statuto degli apolidi dell’ONU viene alla luce nel 1954, all’indomani cioè della II Guerra Mondiale, che aveva fatto registrare un aumento esponenziale di individui privati della nazionalità, sia per la ridefinizione dei confini di molti Stati sia per privazione di nazionalità, come nel caso dei cittadini ebrei di Germania. È proprio grazie a questa Convenzione, ad oggi ratificata da 96 Paesi nel mondo (Italia inclusa, dal 1962), che si è affermata a livello internazionale una definizione condivisa dello status di “apolide” e degli standard sui diritti minimi garantiti dal Paese ospitante. All’art. 1 si legge:
Ai fini della presente Convenzione, il termine «apolide» indica una persona che nessuno Stato considera come suo cittadino nell’applicazione della sua legislazione.
Sempre in ambito internazionale a questa prima Convenzione ha fatto seguito nel 1961 la Convenzione sulla riduzione dell’apolidia, ratificata da 78 Paesi ONU (anche in questo caso Italia inclusa, ma soltanto dal 2015), contenente le misure e i provvedimenti che ogni Stato contraente deve mettere in campo per ridurre, ma soprattutto prevenire, i casi di apolidia.
Apolidi in Italia: tutele e limiti pratici
In Italia, secondo i dati UNCHR, la maggior parte dei più di 3.000 apolidi presenti sul territorio appartiene all’etnia rom stanziata nei territori dell’ex-Jugoslavia, mentre i restanti apolidi provengono da Paesi o territori come l’ex URSS, Cuba, Cina (Tibet) e i Territori Palestinesi Occupati. Pur avendo aderito alle più importanti Convenzioni internazionali sull’apolidia, il riconoscimento giuridico dello status di apolide nel nostro Paese è ostacolato da una pratica burocratica complessa: al 1° gennaio 2022, a fronte di 3.000 – 15.000 apolidi “di fatto” in Italia, soltanto 621 possiedono il riconoscimento dello status giuridico (dati ISTAT).
Stando alle definizioni della normativa internazionale si è apolidi:
- se si è figli di apolidi o se si è impossibilitati a ereditare la cittadinanza dei genitori;
- se si è parte di un gruppo sociale cui è negata la cittadinanza sulla base di una discriminazione;
- se si è profughi a seguito di guerre o occupazioni militari;
- per motivi burocratici, se lo Stato di cui si era cittadini si è dissolto e ha dato vita a nuove entità nazionali (è questo il caso dell’ex Urss o della ex Jugoslavia);
- per incongruenze e lacune nelle leggi sulla cittadinanza dei diversi Stati.
In Italia si diventa ufficialmente apolidi – titolari cioè dello status giuridico di apolide, di un permesso di soggiorno per apolidia di durata quinquennale (che consente di richiedere la cittadinanza italiana soltanto dopo 5 anni di residenza continuativa) e dell’accesso al diritto al lavoro, all’istruzione superiore, ai diritti di proprietà, al rilascio di documenti di identità e titolo di viaggio – attraverso due differenti procedure: la procedura amministrativa e la procedura giudiziaria.
Le due procedure, in caso di parere positivo, garantiscono lo stesso esito, cioè l’ottenimento dello status di apolide. Senza riconoscimento dello status, è bene sottolinearlo, all’apolide soltanto “di fatto” non vengono in alcun modo riconosciuti i diritti sanciti nelle due Convenzioni ONU. Nel caso della procedura amministrativa, tuttavia, la richiesta di produrre come documentazione l’atto di nascita e certificazioni di residenza in Italia, finisce per tagliare fuori molti potenziali titolari di status.
In linea con le disposizioni della Convenzione sulla riduzione dell’apolidia del 1961, e in via del tutto eccezionale rispetto alla normativa nazionale ancora basata fondamentalmente sullo ius sanguinis, l’Italia si impegna a riconoscere la cittadinanza alla nascita:
- ai bambini nati in Italia da genitori apolidi;
- ai bambini che non acquisiscono la cittadinanza dei loro genitori secondo la legge del loro Stato (o Stati) di cittadinanza;
- ai trovatelli.
Le enormi difficoltà riscontrate nell’ottenimento dello status da parte dei genitori finiscono di fatto per precludere il riconoscimento giuridico della condizione di apolide anche per i figli, alimentando una tendenza del tutto contraria al principio di riduzione del fenomeno.
Secondo le Raccomandazioni UNCHR sulla protezione degli apolidi in Italia del 2021 l’ostacolo più grande al riconoscimento dello status di apolide, tuttavia, rimane ancora l’accesso alle informazioni: non soltanto perché molti potenziali beneficiari non sono a conoscenza delle procedure giuridiche, ma anche perché l’apolidia rimane tutt’oggi una condizione spesso ignorata o soltanto parzialmente nota a operatori sociali, funzionari pubblici ed enti erogatori di servizi.
Silvia Proietti
(20 dicembre 2022)
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