Ufficio Immigrazione Roma: la lunga attesa

La Questura di Roma, Ufficio Immigrazione, in Via Teofilo Patini, a Tor Sapienza, è aperta tutte le mattine, dal lunedì al venerdì dalle 8 alle 13:30. Il martedì e giovedì, anche il pomeriggio dalle 15 alle 17.  Il trasferimento da Via Genova al nuovo edificio ha avuto luogo nel maggio 2004. All’Ufficio immigrazioni, oltre che rivolgersi per le pratiche di lavoro e soggiorno, molti extracomunitari vi si recano per richieste di asilo politico essendo solo Roma la sede competente per le richieste dei rifugiati. Il diritto d’asilo è  previsto dall’articolo 10 della Costituzione italiana: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.

13:40, giovedì 25 gennaio. È difficile immaginare che a Roma ci siano posti così lontani dall’immaginario della città eterna, quello dei turisti e degli stessi romani. Superata la Tiburtina si entra in un’altra città: lontano dai centri abitati, da Rebibbia che pure è periferia.
La prima cosa che si incontra sono due macchine della Polizia di Roma Capitale, sostano davanti a un campo Rom. Sembra che il campo sia lì da anni, un deserto di lamiere e cartoni, file di panni stesi ad asciugare, cinque bagni chimici all’esterno del campo.

La lunga attesa degli irregolari

Un centinaio di metri e si arriva all’ingresso principale della Questura. Due enormi blocchi arancioni, moderni, dall’aspetto funzionale. All’esterno, attaccati al muro di cinta, una fila di cartoni, stracci, uomini accovacciati. Alcune persone in attesa corrono verso chi arriva, vogliono parlare con qualcuno, non importa chi sia. Sono i migranti che non hanno permesso di soggiorno, parlano solo inglese: Shahinur Islam, 34 anni, Sohagkhan, 29 anni, Tanbir, 26 anni. Sono giorni che dormono lì, senza lavarsi, riparati dagli ombrelli. Dicono che hanno fame, che non possono muoversi per paura che qualcuno passi avanti. Avanti dove? Prima o poi, li chiameranno ma non sanno quando. Mostrano i visti che, dicono “Abbiamo comprato in Bangladesh” Il visto viene rilasciato per motivi di lavoro o studio e richiede la garanzia di avere un alloggio. Shahinur dice, “Vogliamo il permesso di soggiorno ma non ci chiamano, abbiamo fame, non sappiamo dove andare a dormire, siamo gli ultimi ad essere chiamati”.
Alle loro spalle, altri uomini, dallo Sri Lanka, dall’India. Alle 17 la questura chiude. Dovranno passare un’altra notte accanto al muro di cinta.  “Dove siete passati per arrivare in Italia? Avete il visto, avete preso l’aereo?”. Forse non capiscono, rispondono che sono arrivati via terra, dalla Russia, dall’Asia. Altri via mare, dalla Libia. Il passaggio da irregolari ad invisibili non è lontano.
Poco metri più in là, un ragazzo di colore, se ne sta seduto sul muretto in disparte, non vuole essere confuso con gli asiatici. È ben vestito, ha i capelli rasta, “Io parlo italiano”. Ricorda i ragazzi del film “Io Capitano”. Khadim ha 25 anni, è arrivato in Italia nel 2018 ma non riesce ad avere i documenti per restare. Alla fine, chiede “Per me che c’è” e ride.

Il rinnovo del permesso di soggiorno non finisce mai

Il cancello sotto la targa in travertino “Questura di Roma”, scritto in carattere lapidario romano, è la sola cosa che ricorda di essere a Roma. La questura consta di due edifici arancioni divisi da un piazzale dove sono state installate le macchinette per le bevande. Al piano terra si trovano gli uffici aperti al pubblico, i migranti che devono chiedere il rinnovo del permesso. Sono le 14:15 ma l’ufficio è ancora aperto. Una poliziotta, si sta infilando trafelata la giacca d’ordinanza, sorride e dice che deve sbrigarsi perché la mensa chiude e “si salta il pasto”. Esce insieme ad alcuni colleghi, tutti giovanissimi. Alle 15 gli uffici riaprono.
Gli edifici e il cortile sono delimitati da un ulteriore muro di cinta. Qui, un’altra fila di persone si snoda ordinata e silenziosa, è quella dei regolari in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno: 634.045 stranieri risultano residenti nel Lazio, di questi 511.322 nella sola Roma. In pochi minuti, la fila variegata di persone che non parlano tra di loro si ingrossa. Al di là del muro, sempre i bagni chimici con il loro inconfondibile olezzo.
Le donne di colore non vogliono parlare, hanno paura. I bambini invece, sorridono e ti puntano gli occhi dritti in faccia. Chi è in Italia da tempo, interagisce volentieri. È una coppia di giovani bangladesi: Abdul Momin è in Italia da vent’anni, ha il permesso di soggiorno illimitato e la carta d’identità italiana. Babna, la moglie, 29 anni, l’ha raggiunto nove anni fa insieme al primo figlio. Babna sorride spesso e parla un buon italiano. La seconda figlia è nata in Italia. Abdul dice orgoglioso, “La sera faccio i compiti insieme a mia figlia e lei mi corregge”. Babna e i figli hanno avuto già due permessi di 2 anni, il terzo è stato di 5 anni. Ora, dovrebbero ottenere quello a lungo termine, dieci anni. Non finisce mai.

In fila c’è Muriel. Muriel parla solo spagnolo ed è qui dal 1993. Ad agosto, ha richiesto il permesso di soggiorno digitale. Dice “Nessuno mi ha avvisato che il permesso cartaceo doveva essere convertito”, l’ha saputo col passa parola. Oggi, è qui solo per sapere a che punto è la pratica. È sposata con un italiano, la figlia ha la doppia nazionalità ma lei la nazionalità italiana non la vuole. Non vuole essere confusa con gli altri in fila.
I poliziotti che erano in mensa sono tornati, hanno fatto mezz’ora di pausa. Se all’esterno i richiedenti asilo non se ne vanno, all’interno chi deve rinnovare il permesso non vede l’ora di andare via. Gabriela è venezuelana, è una richiedente asilo. Racconta, “Non volevano riconoscermi lo status di rifugiata, mio padre è ecuadoregno e mi hanno chiesto perché non andavo in Ecuador”.  Invece, Gabriela ha raggiunto la madre a Roma. Ora, lavora in una gelateria e convive col ragazzo italiano. A luglio del ’23 le hanno rubato la borsetta con i documenti. Ha chiesto subito il duplicato del permesso. Forse, arriverà ad aprile ’24. Non lo dice ma teme che il permesso sia revocato.
Così come Parnian, iraniana, vive in Italia da sette anni. È arrivata per studiare biotecnologie e nello stesso tempo lavorava. Le hanno rinnovato il permesso di anno in anno. Ora, Parnian non studia più e lavora come insegnante di inglese. Non riesce a fare il passaggio da studente lavoratore a lavoratore. Lei non vuole rispondere in italiano, forse è arrabbiata, dice, “Lo parlo male”.
Non sembra che ci siano dei mediatori culturali e gli stranieri che parlano un italiano comprensibile sono pochi. Un ragazzo di colore esce senza permesso perché nella richiesta, gli dice un poliziotto, manca la residenza. Ha lo sguardo di chi non ha capito e se ne va senza dire una parola.
Ieri, giovedì 25 gennaio, era una bella giornata, assolata e calda.

Testo Livia Gorini, foto Alessandro Guarino
(26 gennaio 2024)

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