Un anno di pandemia: il racconto da un ex-Siproimi

Emergenza, una parola che da un anno scorre sui titoli di giornale e che affiora con sempre più frequenza e normalità nei discorsi quotidiani. “Emergenza è una parola che noi operatori abbiamo sempre sulla bocca”, dice Matteo Moretti, “ma trasformare la parola emergenza in programmazione è la sfida professionale di chi si occupa di accoglienza”.

Matteo è referente per la formazione linguistica nell’Area Integrazione del S.A.I. Arci di Monterotondo, un centro che ospita donne e nuclei monoparentali formati da donne con bambini. A un anno dallo scoppio della pandemia, le attività degli operatori si sono intensificate e il lavoro nell’accoglienza ha dovuto fare i conti con numerose difficoltà, tra le quali ad esempio la necessità di affrontare la didattica a distanza e la questione dell’inserimento lavorativo.

L’anno del Covid è stato estremamente critico per l’immigrazione, da ogni punto di vista: della sanità, del lavoro, dei diritti e dell’inclusione. Sul piano dell’accoglienza, rilevante è il calo del numero di migranti ospitati nei centri, passati dai 183.800 nel 2017 agli 84.400 a fine giugno 2020, calo legato alla diminuzione della percentuale di accoglimento delle domande di protezione (nel 2019 è stato accolto soltanto il 19,7% delle domande, a fronte del 32,2% del 2018) e all’aumento degli irregolari presenti sul territorio (Dati Dossier IDOS 2020).

Ed è proprio in questo contesto che il lavoro degli operatori dell’accoglienza risulta ancora più cruciale.

Alla ricerca di nuove opportunità

Martina Di Giacinto, referente dell’Area Integrazione del S.A.I., non ha dubbi sul fatto che la pandemia sia stata una sfida per trovare nuove opportunità: “un anno fa ci trovavamo di fronte a una priorità, che era quella di informare le donne su quello che stava succedendo. C’era tra loro chi aveva molta paura e chi invece sembrava non avesse capito la gravità della situazione”, racconta.

“La prima fase della pandemia è stata dedicata all’informazione riguardo la sicurezza in materia sanitaria e il rispetto delle normative, che abbiamo portato avanti anche grazie al lavoro congiunto con i mediatori culturali. Ci siamo trovati a dover analizzare e studiare tutte le azioni da intraprendere per poter realizzare in sicurezza i nostri interventi, che riguardano la formazione, la scuola, l’inserimento lavorativo, l’inserimento scolastico per i bambini e le esperienze di integrazione e di conoscenza del territorio”, spiega Martina. “Quest’ultimo ambito è stato quello che ha subito più ripercussioni, ovviamente. Sono stati sospesi i momenti di socializzazione, come gli eventi pubblici e le passeggiate che facevamo sul territorio con i gruppi di donne”.

La pandemia ha messo chi, come Martina e Matteo, si occupa di integrazione dei migranti, davanti una scelta: da una parte, il rischio era quello di cedere all’immobilismo e all’isolamento. Dall’altra, la sfida che si affacciava era quella di trovare strategie per continuare ad accompagnare le donne in un percorso di autonomia e allo stesso tempo creare una rete.

Fermarsi per ripartire

Dall’archivio di Piuculture, foto Gma

A marzo 2020 abbiamo capito immediatamente che il lockdown avrebbe interrotto le attività dedicate all’inserimento lavorativo, come i corsi di formazione e i tirocini professionali, molti dei quali si realizzano spesso nell’ambito della ristorazione”, racconta Martina. “L’area della didattica è cambiata da un momento all’altro”, aggiunge Matteo: “le competenze informatiche delle donne, spesso scarse, avrebbero potuto compromettere il percorso di apprendimento della lingua, così come i percorsi di formazione online”.

Il lavoro degli operatori, dopo un primo “spaesamento fisiologico” è stato quello di trasformare le criticità in risorse e competenze da mettere in campo.
“Durante quest’anno, abbiamo potenziato la rete di collaborazione con enti pubblici e territoriali, cercando di portare il microcosmo del sistema di accoglienza sempre più in connessione con il territorio; abbiamo lavorato sulle competenze informatiche delle donne, all’inizio è stato complesso spiegare come funzionasse un registro elettronico della scuola”, racconta Matteo.

Il trasferimento al digitale è stato un passaggio importante, che ha arricchito le donne con nuove competenze. “Sono venute fuori le loro risorse”, dice Martina. “A giugno scorso, quattro beneficiarie hanno conseguito il diploma di terza media”, aggiunge Matteo.

La scuola non si ferma

“L’apprendimento della lingua italiana non si è arrestato: i miei studenti, in maggioranza donne provenienti da Africa occidentale e Pakistan, stanno continuando a portare avanti il proprio progetto di vita, anche se spesso mi chiedono Meri, quando finisce il coronavirus?“, racconta Maria Francesca Graziano, insegnante del corso di italiano L2 ed educazione civica nel progetto FAMI di cui il S.A.I. Arci usufruisce, “L’alfabeto per il lavoro e l’inclusione”, iniziato a ottobre 2020. “Seguo un piccolo gruppo, le classi sono tutte costituite da pochi studenti, in modo da consentire il distanziamento all’interno delle aule”, spiega.

“Purtroppo la pandemia ha rallentato il processo di inclusione socio-lavorativa degli studenti, che si sono ritrovati, come tutti noi, a doversi fermare: ad esempio i migranti arrivati in Italia poco prima o durante il lockdown non hanno potuto imparare l’italiano fin quando non è partita la scuola in presenza ad ottobre e quindi si sono sentiti completamente “bloccati” per diversi mesi”, racconta Maria Francesca. “Inoltre, noi siamo riusciti a mantenere la scuola in presenza, ma i corsi professionali sono stati svolti a distanza attraverso le piattaforme online, che limitano sia l’apprendimento che le relazioni sociali“.

L’impatto sulla didattica Maria Francesca lo ha sentito in prima persona: “come insegnante, ho dovuto rinunciare alle attività ludico-didattiche e laboratoriali perché non possiamo scambiarci materiali o toccarci, quindi anche sciogliere il ghiaccio iniziale è stato un po’ più difficile”.

In questa nuova fase di restrizioni, la situazione sembra essere più difficile, soprattutto “per chi, come i migranti, vive una condizione continua di incertezza e precarietà”, spiega l’insegnante. “Lo scorso ottobre, in classe, abbiamo affrontato il tema del lockdown: gli studenti hanno raccontato la loro paura di non poter più trovare un lavoro. Ad oggi, c’è un po’ di preoccupazione e un senso di “sospensione” del tempo”.

Da lunedì la scuola ha attivato la DAD e c’è stata molta partecipazione da parte degli studenti e delle studentesse, che “nonostante i problemi di connessione e i figli a casa, cercano di partecipare con interesse e costanza. Ovviamente, il processo di apprendimento è più lento e difficile per chi ha un livello di lingua più basso ed avrebbe bisogno di un affiancamento costante, ma stiamo dando il massimo”, conclude Maria Francesca.

Dall’emergenza alla resilienza

Innovare, trovare alternative, adattarsi a continui cambiamenti: questa è stata la chiave per costruire un percorso di crescita professionale e umana, anche per gli operatori stessi, professionisti che già dopo i Decreti Sicurezza avevano assistito alla crisi di un intero comparto lavorativo.

Superare l’ottica emergenziale e assistenziale è l’obiettivo di chi si occupa di accoglienza e integrazione. Il rischio di isolamento poteva essere il duro colpo della pandemia sulle vite di chi, come le donne migranti, vive una condizione spesso difficile.
Dall’emergenza alla resilienza: così il settore dell’accoglienza si prepara ai mesi futuri.

Elisabetta Rossi
Foto di copertina: Gma
(17 marzo 2021)

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