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Cultura

Mihaileanu: la ricchezza nasce dalle culture che si intrecciano

Il mondo non è fatto solo di culture, "c'è anche l'individuo che offre la propria individualità come un bene comune: nei momenti più difficili è importante rimanere sé stessi e sempre in dialogo con gli altri"

Officina Zoé e Baba Sissoko, afro-salentini in musica

Il 13 luglio a Villa Ada si sono mischiate le tradizioni, e non le culture. La “Taranta Nera” di Officina Zoè (Puglia) con Baba Sissoko (Mali), Kandi Guira (Burkina Faso) e Ady Thioune (Senegal) è davvero “nera"

Max Romeo in concerto, “Chase the devil” outta Villa Ada

Lunghi dreadlocks canuti per il passare del tempo, camicia a maniche corte rosso porpora in tinta con i pantaloni, 69 anni e non sentirli. Max Romeo si presenta così al concerto del 17 luglio...

Sherif Fathy Salem: la rivoluzione del documentario

Sherif Fathy Salem è un regista egiziano, stabilmente in Italia dal 1997, quando è stato assunto dalla rete satellitare araba ART che trasmette dal centro Italia. Produttore e regista di Italiani d’Egitto racconta la passione...

Fanfara Tirana e Transglobal Underground: una fusione inedita

Per la prima volta nella rassegna Roma incontra il mondo, in assoluta mondiale la Fanfara Tirana e i Transglobal Underground si sono esibiti in un concerto impressionante. Sul laghetto di Villa Ada in un...

World of fashion, crocevia di un incontro all’IILA

Elvio Acevedo e Lisbeth Camargo. “Condividere, interagire, dialogare: in un mondo sempre più globalizzato”, è stato questo l’obiettivo dell’undicesima edizione di World of fashion che si è svolto anche quest’anno all’ILLA in un ambiente...

Accademia di Romania: Daniela Crasnaru nuova direttrice culturale

“Le persone che prendono una valigia e partono, abbandonando i figli e la famiglia a casa, compiono un’operazione dolorosa. Gli italiani percepiscono lo straniero come un elemento negativo, minaccioso

Nuovo cambio al vertice in Egitto, cosa ne pensa la comunità romana

È durata appena un anno, dal 24 giugno 2012 al 3 luglio 2013, la carriera presidenziale del leader dei Fratelli Musulmani di Mohamed Morsi, che solo 12 mesi fa vinceva a maggioranza assoluta le prime votazioni democratiche in Egitto. Le riforme per guidare la transizione però non hanno preso la piega sperata dalla popolazione, su tutte l’ampliamento dei poteri giudiziari di Morsi in modo che i decreti presidenziali non fossero attaccabili e l’idea di uno Stato non teocratico ma fondato sui principi base della Shari’a, la legge coranica. Accentratore, islamista, le attese degli egiziani tradite ancora una volta hanno spinto a nuove ondate di proteste, in piazza Tahrir si sono riversati milioni di manifestanti decisi a disfarsi di Morsi. Ma è stato l’esercito, istituzione con un peso specifico molto importante nella vita politica ed economica dell’Egitto, il vero arbitro della contesa tra le masse di cittadini e un presidente che comunque poteva vantare dalla sua parte una legittima elezione. Dopo un colpo di Stato relativamente pacifico, in attesa di una nuova tornata elettorale, il presidente ad interim Adly Mansour, ex capo della Corte Costituzionale, ha nominato premier Hazem El Beblawi, economista ed ex ministro delle finanze. A fargli da vice Mohamed El Baradei, premio nobel per la pace ed ex direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea), dopo che alla sua candidatura a primo ministro era stato posto il veto per il legame troppo stretto con gli Stati Uniti – e quindi l’occidente. Ma cosa ne pensano gli egiziani presenti a Roma? Specchio fedele di una forte divisione possono essere Attia e Mohamed, 21 e 23 anni, entrambi impiegati in una pizzeria e provenienti da Gharbia, dove la situazione è più tranquilla rispetto agli scontri del Cairo. “Hanno destituito Morsi perché le televisioni hanno inventato cose non vere sui fratelli musulmani e sul presidente, sostenendo che avrebbe fatto lavorare soltanto le persone a lui vicine”, racconta Mohamed. “La gente è scesa in piazza perché ha visto che non è cambiato nulla, il paese è al collasso, però è anche vero che dopo soltanto un anno non puoi buttare tutto all’aria”. Discorde Attia, “a me non piacciono i Fratelli Musulmani, le loro convinzioni non esprimono realmente il Corano. Io voglio la democrazia nel mio paese e nella democrazia ognuno fa ciò che sente, nel Corano Allah dice che puoi fare tutto, quindi per me non è accettabile avere problemi con i fedeli cristiani”. “Il generale Sissi – uomo forte dell’esercito, ndr - aveva detto che avrebbe mediato tra sostenitori e oppositori di Morsi”, controbatte Mohamed. “Quando c’era Mubarak i dissidenti venivano arrestati, durante il governo Morsi neanche un oppositore è finito in carcere, ora invece i Fratelli Musulmani sono stati imprigionati e il loro quartier generale è stato dato alle fiamme”. Entrambi hanno famiglie in Egitto e per informarsi ricorrono a facebook e alla tv locale, via satellite. Ma le loro attese non coincidono: “spero nel ritorno di Morsi inshallah”, l’auspicio di Mohamed, Attia gli punta contro la scopa che sta usando per spazzare il pavimento e si lascia andare a un “vaffa” di cuore. “Io spero che si risolva tutto, ma al momento non sappiamo come andrà a finire”. Critiche a Morsi arrivano anche da Mina, fiorista, 26 anni e da 3 in Italia, “non andava bene perché non ha coinvolto le altre forze politiche nella formazione di governo. Ora tutto l’Egitto è in strada e mi dispiace molto essere qui e non poter offrire il mio contributo”. Per informarsi segue le tv egiziane: “ONTV e Al Arabiya, Al Jazeera invece è con Morsi”. Pietro, anche lui fiorista, 31enne, si spinge addirittura oltre: “Con Morsi molti egiziani sono scappati, per la disoccupazione e per paura dei Fratelli Musulmani. Mubarak secondo me era meglio: rubava i soldi ma non si viveva nel terrore. Io sogno di tornare a casa, sto aspettando che le cose si calmino anche se adesso non si trova lavoro”. Tensione religiosa che negli ultimissimi giorni è salita dopo l’omicidio di un sacerdote cristiano ad El Arish, in Sinai. Binyamin è copto di rito greco ortodosso, sedici anni fa ha comprato la licenza di un chiosco di fiori. Immagina un futuro con più sicurezza per le minoranze confessionali, “è finito lo strapotere dei Fratelli Musulmani, finito”, ripete con convinzione. “La maggioranza vuole questa libertà, forse voi ci siete abituati e non ve ne rendete conto, tolti di mezzo i fanatici diventerà normale anche per noi. Morsi è una testa vuota. Lo senti parlare per ore senza un pensiero, una nullità”. Diversa la sua opinione sul generale Sissi, “giovane, preparato, lui sa quel che bisogna fare”. Il collega Ahmed è invece musulmano, ma la sua valutazione coincide con quella di Binyamin, nel ritenere che l’estremismo sia manipolato da una minoranza ristretta “non sento inimicizia per i copti, semmai serve cooperazione per far ripartire l’economia”.

Eppure si diceva di non dimenticare

“Ci sono temi che non proporrete mai?” “Si tiene conto delle sensibilità particolari e del momento storico. E anche dei rapporti diplomatici del nostro Paese. Per parlarci chiaro: un tema sul genocidio degli armeni, che va a colpire una sensibilità particolare della Turchia, preferiamo evitarlo”. A parlare è Luciano Favini, ispettore capo del gruppo di esperti che prepara le tracce da proporre al ministero per la prima prova dell’esame di Stato in un’intervista del 17 giugno al Messaggero. Una dichiarazione come questa non poteva passare inosservata e non suscitare sgomento all’interno della comunità armena - circa 200 famiglie solo a Roma e provincia - tanto da spingere Barbara Grassi Najarian, professoressa di italiano e storia in una scuola secondaria di secondo grado, madre e marito armeni, ad inviare una lettera a Favini per rendere conto di un’affermazione rilasciata quantomeno con leggerezza. “È stata una reazione istintiva, ma ho aspettato una notte prima di scriverla, per abbassare i toni a freddo e renderla più breve”. La risposta è arrivata, “ma solo per ribadire una posizione ritenuta legittima, che non voleva offendere nessuno, ma le cose stanno così”. Non è solo una questione di avere le proprie opinioni, “è come dire ai ragazzi di non studiare un evento storico”, con una logica che, per rimanere nell’ambito scolastico, “è la stessa di chi non vuole dire niente ai bulli, altrimenti potrebbero reagire. Non bisogna disturbare il prepotente, la Turchia ha sempre portato avanti una politica negazionista, una sua reazione c’è sempre quando si parla del genocidio degli armeni. La vigilanza è stretta e molti paesi hanno paura di ritorsioni economiche”. Un esempio, per quanto possa sembrare un fatto di scarsa rilevanza politica, fu la partecipazione dei System of a down, gruppo alternative metal statunitense ma di origini armene, all’Eurovision Festival, rassegna musicale che coinvolge paesi di tutta Europa. Un giornalista finlandese scrisse che i Soad avrebbero partecipato in rappresentanza della nazione caucasica, “ho chiesto che ritrattasse l’articolo”, racconta in un’intervista visibile su youtube Serj Tankian, cantante e tastierista, “perché semplicemente non lo avevo detto. Ma qui è successa una cosa interessante perché nel giro di due mesi la questione è finita al parlamento turco. In quel momento ho pensato: hmmm”. La situazione sul riconoscimento potrebbe avere un peso specifico riguardo la candidatura turca all’ingresso in Europa, caldeggiata da molti. Per la Francia il negazionismo è reato, l’Italia nel 2000 ha votato una risoluzione, sull’esempio delle istituzioni comunitarie e del Vaticano, che riconosce il genocidio ed invita la Turchia a fare altrettanto. Ma mancano ancora prese di posizione ufficiali da pesi massimi come Germania e Gran Bretagna e, uscendo dai confini continentali, Stati Uniti. Il discorso si può estendere alla didattica, “io adotto testi che ne parlino ma nel modo corretto, non che supportino la tesi di un’azione inevitabile per punire degli insorti. Metterlo sotto questa luce rimetterebbe in discussione anche il Risorgimento, una ribellione contro l’Austria”. Le radici storiche del genocidio L’Armenia storica comprendeva buona parte dell’Anatolia centro-orientale, “da dove la popolazione non si era mai mossa per millenni. Le motivazioni del genocidio sono prima religiose, quindi identitarie, poi economiche”, non avendo combattuto guerre, dalla disgregazione dell’Impero Ottomano, gli armeni “erano infatti riusciti a prosperare. Ma poiché il padre della Turchia moderna, Ataturk, ne era coinvolto, diventa difficile ammettere le colpe, significherebbe disconoscere un eroe nazionale e quasi riscrivere la storia. La presenza artistica e culturale svanita è stata una perdita di un patrimonio appartenente all’umanità intera”. “La reazione fra i turchi c’è”, ci tiene a puntualizzare la Grassi, “il senso di colpa, anche se ovviamente la responsabilità non può essere di chi all’epoca non c’era nemmeno, spinge a volersi scaricare la coscienza”. Un esempio è il libro di Taner Akçam “Nazionalismo turco e genocidio armeno. Dall’Impero Ottomano alla Repubblica”, costato all’autore una condanna a dieci anni per aver trattato pubblicamente il tema. Il ricordo ed il riconoscimento sono due questioni fondamentali. Basti pensare all’agghiacciante frase pronunciata da Hitler nel 1939 a pochi giorni dall’invasione della Polonia, quasi a convincere i suoi stretti collaboratori ad attuare gli stermini che sarebbero seguiti, “chi si ricorda più del massacro degli armeni?”.

La violenza sessuale come arma di guerra, il coraggio di testimoniare

Il silenzio era il migliore alleato di Gheddafi”, racconta la stessa Cojean. Rapita e portata nel deserto, dopo le analisi del sangue Soraya è stata spinta nella stanza del “padrone”, picchiata, forzata ad assumere cocaina, costretta a danzare